Spigolando tra la letteratura italiana: Cesare Pavese

Cesare Pavese nasce nel 1908 a S. Stefano Belbo (Cuneo), rimane presto orfano di padre e compie i suoi studi a Torino, dove si laurea in lettere nel 1930. Grazie alla sua ottima conoscenza dell’inglese, comincia a tradurre per la casa editrice Einaudi autori inglesi e statunitensi. Nel 1935 viene spedito al confino di Brancaleone Calabro, dove inizia a scrivere “Il mestiere di vivere”, un diario che sarà pubblicato postumo nel 1952. Ritornato a Torino nel 1936, riprende la collaborazione con l’Einaudi e si dedica alla produzione poetica (“Lavorare Stanca” del 1936) e narrativa. Nel 1950 vince il Premio Strega, ma la delusione civile, la vita sentimentale travagliata, il disagio esistenziale, inducono lo scrittore a porre fine alla sua vita in un albergo di Torino nel 1950.

"Lo Steddazzu": Quando l’ultima stella si spegne nel cielo...

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’uomo solo si leva che il mare è ancor buio
e le stelle vacillano. Un tepore di fiato
sale su dalla riva, dov’è il letto del mare,
e addolcisce il respiro. Quest’è l’ora in cui nulla
può accadere. Perfino la pipa tra i denti
pende spenta. Notturno è il sommesso sciacquìo.
L’uomo solo ha già acceso un gran fuoco di rami
e lo guarda arrossare il terreno. Anche il mare
tra non molto sarà come il fuoco, avvampante.

Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno
in cui nulla accadrà. Non c’è cosa più amara
che l’inutilità. Pende stanca nel cielo
una stella verdognola, sorpresa dall’alba.
Vede il mare ancor buio e la macchia di fuoco
a cui l’uomo, per fare qualcosa, si scalda;
vede, e cade dal sonno tra le fosche montagne
dov’è un letto di neve. La lentezza dell’ora
è spietata, per chi non aspetta più nulla.

Val la pena che il sole si levi dal mare
e la lunga giornata cominci? Domani
tornerà l’alba tiepida con la diafana luce
e sarà come ieri e mai nulla accadrà.
L’uomo solo vorrebbe soltanto dormire.
Quando l’ultima stella si spegne nel cielo,
l’uomo adagio prepara la pipa e l’accende.

 

 

 

 

[1] Lo “steddazzu” è in dialetto calabrese la stella del mattino, l’ultima a spegnersi prima che i raggi del sole illuminino il cielo.

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“Lo Steddazzu”: Guida alla lettura di Renato De Capua

La poesia si apre con un’immagine lenta, che esprime sin da subito il tono malinconico del componimento.

Un uomo si “leva”(v.1), si sveglia all’alba, vista non come presagio di positività, ma anzi come annunciatrice del tempo dell’instabilità , del non certo, nel quale “il mare è ancor buio / e le stelle vacillano” (vv.1-2), portavoce delle istanze del prologo di un giorno inutile “in cui nulla / può accadere”(vv. 4-5).

Il Mare viene personificato tramite l’analogia dell’aria tiepida che spira, assimilata al respiro di un essere umano, fortemente consapevole della precarietà della propria natura.

È lo stesso uomo che tiene tra i denti una pipa spenta, cosciente dell’asprezza della solitudine e del senso d’ inutilità ineffabile che essa causa.

Non c’è cosa più amara che l’inutilità” (vv.11-12) – dice Pavese – in versi che risultano quasi affannosi, fiacchi.

Poi al v. 13  è ritratta l’immagine di una stella “verdognola”, la stella del mattino che sta perdendo il vigore, la vividezza del suo colore, offuscata dalla luce dell’alba.

È proprio quest’astro, lo steddazzu, a dare il titolo al componimento e, tramite esso, possiamo leggere l’intenzione del poeta di sviluppare la propria riflessione su un piano metafisico, oltre i fenomeni del contingente. S’intesse così nella trama poetica, una riflessione esistenziale sulla deriva alienante della solitudine.

Che senso ha vivere l’alba di un giorno in cui nulla accadrà? Che cosa c’è di più amaro della constatazione della propria inutilità?

Non c’è slancio vitale, manca la fiducia in se stessi e in un senso che anima, con viva polisemia, la realtà.

Le ore trascorrono lente per coloro che non si aspettano nulla dal giorno nel quale esistono, nel quale sono presenti.

E quindi, l’esistenza, viene a coincidere con l’annullamento di se stessi, delle proprie pulsioni passionali, con la stanchezza attonita di chi sta a guardare un disarmante arco temporale che avanza, con la consapevolezza di non poterlo arrestare e di non potersi esimere dal viverlo.

L’uomo, come c’insegna la tradizione umanistica filosofica e letteraria, ha avvertimento della vita e su tale tematica s’interroga.

Ma il soggetto descritto in questa lirica è affaticato, lacerato, quasi ridotto a brandelli.

Difatti “l’uomo vorrebbe soltanto dormire” (v.23), intravedendo nel sonno una via di fuga dalla vita, un incontro verso un’alterità migliore che è prossima, ma pur sempre metafisica.

“Lo steddazzu” fu l’ultima poesia scritta da Pavese durante il suo arresto e la condanna al confino politico a Brancaleone Calabro, dove trascorse quasi un anno, in balia dei propri dissidi interiori e depressivi.

Quando finì di scontare la sua pena, nel 1936, pubblicò la raccolta poetica “Lavorare stanca”, dove è contenuta la lirica che abbiamo esaminato.

Una delle straordinarie novità della poetica di Pavese consiste, come ha sottolineato la critica letteraria Armanda Guiducci: “nell’aver cancellato l’io del poeta, tradizionalmente centro d’irradiazione di voce, immagine, pensiero, per piegarlo alla terza persona”, dando risalto al ruolo  della missione

del ruolo del poeta: essere voce narrante della realtà che, sebbene possa essere dura e talvolta sprezzante da accettare, è tale.

Occorre, inoltre, sottolineare quanto per Pavese la letteratura sia stata un’esperienza di vita importante, forse, l’Esperienza, la sola e autentica interlocutrice della propria autoanalisi, della quale dobbiamo tener conto per la comprensione piena delle sue opere.

Ma forse, per il nostro autore, la letteratura è la vita stessa, tratto saliente ed essenziale della sua identità, colei che può donare significato al mutevole e sfuggente corso degli eventi.

Il 16 aprile del 1940 ne “Il mestiere di vivere”, opera diaristica e introspettiva, scrisse che “la poesia nasce dagli istanti in cui leviamo il capo e scopriamo con stupore la vita”.

E con questa affermazione, non mi avvio a una conclusione, mi fermo soltanto, lasciando aperto un dialogo che, sono certo, continuerà fecondo, nel tentativo caparbe di valorizzare il messaggio di Cesare Pavese: valorizzare anche gli attimi dei giorni, i dettagli, gemme fragili d’ immagini, fonti copiose di poesia.

 

(Renato De Capua  - Riproduzione riservata)