“In limine” di Eugenio Montale

(Commento di Renato de Capua)

Godi se il vento ch’ entra nel pomario
vi rimena l’ondata della vita:
qui dove affonda un morto
viluppo di memorie,
orto non era, ma reliquario.

Il frullo che tu senti non è un volo,
ma il commuoversi dell’ eterno grembo;
vedi che si trasforma questo lembo
di terra solitario in un crogiuolo.

Un rovello è di qua dall’ erto muro.
Se procedi t’ imbatti
tu forse nel fantasma che ti salva:
si compongono qui le storie, gli atti
scancellati pel giuoco del futuro.

Cerca una maglia rotta nella rete
che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!
Va, per te l’ ho pregato, – ora la sete
mi sarà lieve, meno acre la ruggine…  

 

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“In limine” è il testo introduttivo ad “Ossi di Seppia”, contraddistinto da un particolare uso del carattere corsivo rispetto agli altri componimenti della raccolta.  É di datazione incerta, fu composto probabilmente poco prima dell’estate del 1924, anno che precede la prima edizione della raccolta poetica montaliana che vedrà la luce nel 1925 a Torino, presso l’editore Pietro Gobetti.

La poesia è dedicata a Paola Nicoli, una bellissima attrice originaria del Perù che Montale ebbe modo di conoscere nella metà degli anni Venti del ‘900 . Egli ritrovò negli occhi di lei le movenze inquiete della sua psiche, che connoteranno poi tutta la sua successiva produzione.

Leggendo “In limine” si può già viaggiare per i paesaggi d’arsura della costa ligure, percepire la presenza di una natura che assume sembianze umane che riflettono i moti complessi e stranianti di un’anima errante.

Tali elementi a cui si fa riferimento sono: il vento “che entra nel pomario”, quell’orto che non è animato da un terreno fecondo e che è un “reliquario”, ossia un contenitore di arcane memorie latenti che inducono l’uomo all’introspezione più profonda e segreta.

S’ode poi un rumore (“frullo”) d’ali sbattute che in realtà non appartengono ad un volo d’uccello vero e proprio, ma che esemplifica piuttosto il “commuoversi dell’eterno grembo”, ossia la manifestazione della vitalità insita precipuamente nella natura, tutta fusa e convogliata in un “crogiuolo”. È questo il punto in cui converge la “distensio animi” del poeta che diviene individualmente universale.

La vita viene vista come un “rovello”, un tormentoso e misterico esame di perpetua interrogazione che ognuno opera su se stesso, non accettando l’impossibilità d’oltrepassare quel muro, oltre cui ci sarebbe l’esplicabilità del “rovello” vitale.

La trattazione della dimensione esistenziale che emerge da  questo componimento è la chiave di lettura corretta per comprendere anche il senso montaliano della vita che

diverrà poi in “Meriggiare, pallido e assorto” una muraglia che reca in cima “cocci aguzzi di bottiglia”.

Malgrado queste pessimistiche considerazioni, forse si può ancora credere che esista un “fantasma”, un’apparizione miracolosa, che possa salvare chi sta per cadere in un baratro desertico. Ed è allora che si può forse intravedere l’intervento diretto del poeta, che, mediante l’imperativo “CERCA”, incita l’uomo a ricercare appunto una via di fuga, “una maglia rotta nella rete/ che si stringe […]”, unica e miracolosa via di scampo dall’agonizzante prigione in cui l’esistenza sprofonda. 

La poesia si conclude con l’immagine del poeta che dopo aver dialogato con la sua prediletta interlocutrice, si sente più leggero, libero, meno insoddisfatto “della sete” e “della ruggine”, raffigurazioni metaforiche del desiderio e dell’insoddisfazione.

Montale dedicherà poi altre due poesie, che successivamente, a Paola Nicoli: “Crisalide” e “Casa sul mare”.

 

(© Renato De Capua   Riproduzione riservata)

 

 

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